“L’ETICA È LA NOSTRA ARMA, IL RIFIUTO È LA NOSTRA STRATEGIA”.

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La Call

Avevo stilato il seguente documento, che lessi ad alta voce.

Nonostante lo sapessi a memoria lo lessi parola per parola e ne distribuii delle copie, non volevo in alcun modo essere travisato negli intenti.

Ecco cosa dissi:

“L’incontro che ho voluto stasera nasce dalla necessità di condividere con altri artisti un’idea che mi frulla in testa da diverso tempo.

Alla base di questa idea c’è un disagio derivante da un sistema arte che soprattutto negli ultimi decenni ha perseguito l’annullamento e la rimozione di valori e ruoli degli attori coinvolti, soprattutto gli artisti e gli spettatori.

Personalmente mi sono accorto che questo disagio ha cambiato non solo  il mio atteggiamento nei confronti dell’arte prodotta da altri artisti, ma anche nella mia produzione, che adesso – me ne sono reso conto recentemente – è più  simpatetica verso il mondo underground, e nettamente più antitetica al cosiddetto mainstream.

Ciò che a mio avviso è inaccettabile sono le ripercussioni che questo imbarbarimento ha sul costume e sulla società: nichilismo, indifferenza, gusto per il grottesco, alienazione.

La cultura, e quindi l’arte, sembrano aver perso il loro ruolo ispiratore, non sono più depositarie e portatrici di valori, ma veicoli di promozione di prodotti senza sostanza.

Già da diversi anni alcuni intellettuali hanno cominciato a contestare quelli che vengono apertamente definiti i grandi bluff dell’arte, dell’architettura e della critica d’arte; a richiamare l’attenzione sul progressivo appiattimento del gusto e sui pericoli dell’informatizzazione dell’arte.

Angelo Crespi (giornalista e docente all’Accademia di Belle Arti “Aldo Galli” di Como) ha scritto diversi libri al riguardo, vale la pena citare:

“Ars Attack. Il bluff del contemporaneo”;
“Nostalgia della bellezza. Perché l’arte contemporanea ama il brutto e il mercato ci specula sopra”

“Costruito da dio. Perché le chiese contemporanee sono brutte e i musei sono diventati le nuove cattedrali”.

Crespi ha addirittura coniato il termine SGUNZ, ossia:

un oggetto tendente all’orripilante, all’informe, all’insensato (meglio se tutto insieme), che sia il più nuovo possibile (questo è imprescindibile), che si autodefinisca come “arte”, e che abbia un pubblico che pur non capendone la portata ne sostiene entusiasta il valore.”

Marco Meneguzzo (critico d’arte, curatore indipendente e docente all’Accademia di Brera) ne  “Il capitale ignorante” e in “Breve storia della globalizzazione in arte” denuncia l’appiattimento del gusto verso il basso e i motivi che spingono i collezionisti a possedere un’opera piuttosto che collezionarla e sul come non sia necessaria una preparazione specifica per occuparsi di arte:

Da quando l’attenzione si è spostata dall’arte vera e propria alla sua diffusione e commercializzazione, è sufficiente conoscere i valori delle aste, le date, i nomi dei pochi artisti più in vista, gli exploit economici dell’anno, per ritenersi degli esperti ed essere considerati tali da un insieme di altri “collezionisti” con lo stesso grado di comprensione dell’ambiente.

Il sistema dell’arte attuale consente cioè a chi vi si avvicina di credere che una pratica di 2-3 mesi e l’apprendimento di poche “parole d’ordine” siano sufficienti per muoversi con disinvoltura al suo interno, perché le motivazioni che spingono l’interesse per questo “comparto simbolico-produttivo” non sono più dettate dall’amore per il linguaggio complessi di interpretazione del mondo, ma dal consenso sociale alla propria passione.”

“L’arte moderna è un grande carnevale – dice Mario Vargas Llosa (scrittore, drammaturgo e politico peruviano naturalizzato spagnolo) – in cui si mescola di tutto, il talento e la furbizia, i creativi e i pagliacci. E, questo è l’aspetto più grave, non c’è modo di fare distinzioni, di separare la scoria bruta dal puro metallo.

E proprio perché ormai non esistono denominatori comuni estetici che consentano di distinguere il bello dal brutto, il successo di un artista non dipende dai suoi meriti, ma da fattori estranei all’arte quali le sue capacità istrioniche o gli scandali o gli spettacoli che è in grado di organizzare o dalle manovre mafiose dei galleristi, dei collezionisti, dei mercanti e dall’ingenuità del pubblico smarrito e sottomesso”.

Tom Wolfe (saggista, giornalista, scrittore e critico d’arte) nel suo divertente :

“Come ottenere successo in arte” già nel 1975 la toccava piano asserendo, in riferimento all’arte sua contemporanea:

“i dipinti e le altre opere esistono soltanto per illustrare il testo”

Nonostante il fatto acclarato che l’arte ed il turismo ad essa legato raggiungano numeri impressionanti in termini di visitatori forse come non mai nella storia dell’umanità, è altrettanto vero che l’arte è sempre più lontana intellettualmente e spiritualmente dalle masse, in un apparente ossimoro per cui l’arte è accessibile a tutti, ma è compresa e fruita da pochi.

Gli addetti ai lavori, dal canto loro, sembrano fare di tutto per rendere sempre più inaccessibile il godimento di un’opera d’arte al visitatore, con proposte artistiche che se private di un’impalcatura filosofica creata ad hoc e artificiosamente, falliscono miseramente; spesso un’opera d’arte vale perché costa e non – come a rigor di logica dovrebbe essere – costa perché vale; un’opera d’arte è tale se è esposta in un museo o in una galleria, è lo spazio espositivo che certifica lo status di opera d’arte, è dai tempi di Duchamp che è così.

Andando oltre più il divario tra qualità dell’opera e il valore certificato è ampio, più diventa oggetto di curiosità per le masse (si pensi alla banana di Cattelan che si dice sia stata venduta a 130.000 € e allo scalpore che ha suscitato).

In tutto ciò lo spettatore è trattato come un soggetto passivo, dando per implicito che sia privo di spirito critico, anche perché della sua opinione alla fine  non interessa a nessuno, perché non è il numero di spettatori plaudenti che decreta il successo di un artista, ma  è il prezzo a cui viene battuta la sua opera che desta interesse, specie nei collezionisti ignoranti di cui abbiamo accennato prima.

Come ho detto finalmente qualche intellettuale ha cominciato a contestare apertamente questo sistema e sta cercando di innescare un dibattito al riguardo, sebbene ad oggi siano pressoché ignorati sia dagli artisti, che dalla critica.

Non esiste artista emergente sulla faccia della terra che criticherà il sistema che lo sostiene.

A questo punto, quello che vorrei fare io, con la collaborazione degli artisti e artiste che vorranno aderire, è inserirsi in questo dibattito – nel nostro piccolo e secondo le nostre capacità e possibilità – da artisti che vogliano proporre e condividere una nuova etica, una visione comune sulla funzione dell’arte, sulle caratteristiche che un’opera d’arte dovrebbe avere per essere funzionale alla crescita intellettuale delle persone; sul riappropriarsi del ruolo da protagonista della scena culturale e non di gregario e infine, non meno importante, sul rendere soggetto attivo lo spettatore nella fruizione dell’arte.

Non si tratta di contestare un sistema o una determinata tipologia di arte, con tutta probabilità verremmo trattati da arroganti, ma di proporre un modello alternativo di discussione, di procedure e di fruizione dell’arte, che magari possa essere reiterato in altri ambiti e territori.

Non contestare, ma rifiutare – almeno nel nostro operato – quei paradigmi trasversalmente accettati da artisti, critici e curatori che hanno portato al deprezzamento dei ruoli, in primis quello dell’artista.

Questo modello potrebbe essere presentato come una sorta di dichiarazione di intenti, un manifesto condiviso frutto di una discussione tra artisti, dove, ad esempio, si individuano gli scopi, i modi per realizzarli, quali caratteristiche e tematiche dovrebbero avere le opere d’arte per essere fruibili dal maggior numero di persone possibile.

A titolo di esempio ho individuato, per mio conto, alcune caratteristiche sicuramente non esaustive che un’opera di pittura dovrebbe avere, ossia qualità, onestà intellettuale e artigianalità.

Volendo essere più chiari, per opere di qualità intendo opere che siano durevoli nel tempo, realizzate con materiali e tecniche quanto più affidabili possibile, a tutela sia dell’artista che dell’acquirente o di un pubblico lontano in termini di tempo dai nostri giorni.

L’onestà intellettuale: un’opera che sia apprezzabile già come significante, non necessariamente come significato, (Cretto di Burri) che sia fruibile a tutti, ad esempio offrendo più livelli di lettura anche senza la stampella della filosofia.

L’artista potrebbe essere chiamato a spiegare e a condividere le sue idee e la sua poetica non per giustificare niente, ma per aggiungere ulteriori livelli di lettura e rendere maggiormente fruibile il proprio operato, ponendo così se stesso e lo spettatore in una condizione di crescita reciproca.

Sono dell’opinione che debba essere l’artista a parlare delle proprie opere, eliminando tout court il contributo del critico d’arte prezzolato.

Infine: l’aspetto artigianale. Il profano che si trova di fronte un manufatto d’arte spesso non ha idea delle procedure e delle competenze necessarie alla sua realizzazione.

Molto spesso le procedure impiegate sono il frutto di un retaggio di secoli di tecnica e storia dell’arte; altrettanto frequentemente sono conseguenza di ricerche personali annose e faticose; in ogni caso vale la pena di renderle note al pubblico e anche in questa occasione deve essere l’artista ad illustrarle, chi meglio dell’artista può raccontare come ha realizzato un’opera d’arte, il sorprendersi del proprio operato, le difficoltà che ha incontrato?

Onestà intellettuale, qualità dell’opera e artigianalità concorrono alla definizione del valore dell’opera, a prescindere che essa sia collocata al Louvre piuttosto che in una amena galleria cittadina, abbattendo così il divario tra valore percepito dell’opera e quello certificato dal sistema arte.

Mi rendo conto che quanto finora detto non è esaustivo e ho il grande timore di non essere riuscito a trasmettere i miei intenti. Sicuramente molte delle cose che ho detto desteranno perplessità o disaccordo, ma proprio questi dubbi e divergenze dovrebbero essere il nostro punto di partenza.

Una base di partenza sulla quale imbastire un ragionamento collettivo più articolato, che possa comprendere trasversalmente più arti figurative, comprese la fotografia e la video art.

Infine mi piacerebbe cominciare a ricomporre un tessuto artistico – non so come definirlo in altro modo – sul territorio, fatto di relazioni, collaborazioni e scambi tra artisti; sarebbe bellissimo.”

Ovviamente seguì un dibattito che venne poi proseguito via internet all’interno di un gruppo di discussione che contemplò qualsiasi argomento immaginabile, anche al di fuori dell’arte.

Ognuno aveva una sua visione, ognuno aveva i suoi punti irrinunciabili, cominciarono le discussioni e le defezioni. Alla fine, rimanemmo una dozzina, ma eravamo ancora allo stato gassoso, poco più di un’idea.

Tutti però convenimmo che il nascituro gruppo dovesse dotarsi di un nome e di uno strumento che dettasse le linee guida.